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Articolo

L'esperienza della bellezza
Sonia Spallino

Che cos’è la bellezza? Difficile trovare una risposta a questa domanda: bisognerebbe trovare parole per descrivere l’ineffabile, ciò che non può essere detto, spiegato, argomentato, ma solo sentito, esperito, vissuto. E la bellezza è proprio questo: una sensazione che diventa emozione, e stato d’animo.

Eppure nonostante il suo carattere elusivo, sfuggente, inafferrabile, inesprimibile, la bellezza è un’esperienza centrale, costitutiva dell’esistenza umana: insieme al buono (cui, in molte lingue, per es. il latino, è strettamente apparentata già a livello etimologico) e al vero rappresenta quella che Remo Bodei ha definito una “trinità” che, secondo la visione steineriana, ci permea di sé nel corso dei primi 3 settenni della nostra vita (buono: 1° settennio, bello: 2° settennio; vero: 3° settennio) e continua a rappresentare, per tutto il resto della nostra biografia, contemporaneamente cartina al tornasole del valore e del significato delle nostre esperienze e una meta e un obiettivo a cui tendere.

Riconosciamo per istinto ciò che è bello, e lo riconosciamo a partire dalle risonanze che l’esposizione alla bellezza suscita in noi: amplificazione, dilatazione, sospensione, stupore, appagamento, pienezza, contemplazione, ulteriore sono tutte parole che associamo all’esperienza della bellezza.

E così abbiamo da sempre cercato di “spiegare” la bellezza attraverso le caratteristiche di ciò che suscita in noi queste sensazioni. Nella civiltà occidentale, a partire dalla grecità classica, la bellezza (come anche il buono e vero) è intimamente connessa alla misura, al limite, al “modo”. Spetterà poi al Romanticismo svelare la bellezza del sublime, del grandioso, di ciò che eccede la misura, che ci sovrasta e ci annienta lasciando tuttavia intatte le nostre capacità di percezione.

In ogni caso la bellezza ci raggiunge e ci tocca attraverso i nostri sensi: è qualcosa che riconosciamo, per istinto, per vocazione, ma che viene dall’esterno. Per questo la bellezza richiede attenzione, e disponibilità a fare spazio: perché la bellezza dell’altro-da-me possa manifestarsi e perché io possa coglierla e accoglierla devo ritrarmi, pormi nell’atteggiamento della contemplazione, della passività, per usare un termine caro a Maria Zambrano.

Una passività attiva, però, dice sempre Maria Zambrano: la bellezza, infatti, ci provoca, ci sollecita, spesso ci sfida. La parola kalos, in greco, deriva appunto da kaleo, chiamare, provocare. Perché la bellezza non sta nella materia, ma nella compenetrazione di un principio universale nella materia, in un raggio di luce che ha preso dimora nella materia e la illumina. E cogliere quel raggio di luce non sempre è facile. Per questo la bellezza è anche un compito, a cui educarsi e a cui educare: la bellezza ha bisogno dell’uomo, di un uomo che sappia farsi artista, artefice del processo della bellezza.

“La bellezza salverà il mondo?”: questa era la domanda che si poneva Dostoevskj e a cui tutti siamo chiamati a rispondere attivamente. Perché lo sappiamo per esperienza: attraverso la bellezza ci salviamo da tutti i percorsi discendenti e imbocchiamo un percorso ascendente; attraverso la bellezza partecipiamo in pienezza alla vita.

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