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Articolo

Quando il tempo si arresta, diventa luogo
Angela Segantini

La possibilità di non agire, non rispondere, non risolvere

La mia identità personale, il mio sentire e il mio presentarmi all’altro sono stati per molto tempo un tutt’uno con la mia identità professionale: infermiera di emergenza, 118 . L’emergenza e i tempi dell’emergenza erano diventati un sottofondo in ogni mio agire, con quei meccanismi immediati e unici che prevedono presenza vigile e continua e risposta immediata in tempi ridotti.
L’infermiere dell’emergenza vive una sorta di dislocazione: con la mente passa dal passato al futuro per capire le cause di ciò che vede e sente, ma con le mani e con il corpo è in azione nel presente, sul paziente e con il paziente. Si toglie completamente dal suo tempo, per affondare in quello della persona che soccorre. Il fattore tempo in queste situazioni impone, a volte con violenza, di saltare tutte le tappe, di attraversare tutte quelle sacre soglie che rappresentano il monumento del rispetto all’altro.

Il pericolo di vita, la lotta per la sopravvivenza, il tentativo di invertire una direzione che a volte sembra già segnata, spogliano paziente e infermiere di ogni sovrastruttura, di ogni dettaglio o sfumatura che non siano legati ai bisogni primari.

L’orizzonte e il futuro non sono più lontani o immaginati, sono semplicemente scomparsi. Il presente si dilata e invade tutto il campo: urla, pretende mani, parole, azioni e decisioni. Il passato è lì, timido e piccolo, solamente al servizio del carnefice “presente”, e viene interpellato solo per giustificare il qui e ora, diventando incapace di esprimere la propria ricchezza e il proprio senso.
Quel tempo che era il nostro maestro, il nostro compagno di viaggio, il nostro contenitore ora si trasforma in un crudele dittatore, che invade spazi ed emozioni per prenderne possesso. Nel suo movimento di conquista di tutti i nostri territori, il tempo si dilata talmente tanto che alla fine scompare. Ne rimane solo la percezione insopportabile nell’attimo del presente, che spesso risulta invivibile per chi soffre.
Questo movimento violento del nostro tempo, improvviso e inaspettato, frantuma la percezione di sé stessi come anime in cammino, come portatori di ricchezze, come uomini e donne sempre nuovi e pronti alla rinascita. Ci inchioda. Proprio lì dove non vorremmo mai stare. Ci costringe a sentire ed esperire l’indicibile, l’inguardabile, il troppo. È solo da quella soglia pietrificata del dolore che può ripartire il movimento dell’ingranaggio, o si può fermare per sempre. Non vi è possibilità altra. La soglia va attraversata. Il silenzio va ascoltato in tutto il suo frastuono. La mancanza va esplorata. Il dolore va indossato.
È in questo momento che il tempo presente  decelera fino a cristallizzarsi.

Quando il tempo si arresta, diventa luogo (Chawki Abdelamir)

È questo luogo che abito io quando lavoro. Un luogo, una bolla creata dal nulla ancora disabitata, spesso silenziosa, a volte urlante di dolore. Prendo possesso di una bolla che non è mia e vi cerco la persona che la abita.

Insieme fa meno paura.
Insieme possiamo provarci.
Insieme è meno assordante.

Questo meccanismo di domanda-risposta, stimolo-conseguenza, mi ha aiutato spesso sia sul lavoro che nella mia vita. È un movimento focalizzato sulla richiesta, sull’anticipazione, sull’emergenza. Ed ha funzionato per molto, finché non mi sono accorta che il tempo e la vita non sono sempre in emergenza. E dove non c’è emergenza si aprono infinite praterie di domande senza risposte, si aprono gli spazi immensi dell’altro, dell’incertezza e del possibile. Ho scoperto e assaporato dentro e fuori il vuoto, l’irrisolto, il dubbio.
Ho respirato finalmente la possibilità di non agire, non rispondere, non risolvere: semplicemente stare. Addirittura solo essere, anche senza stare.
Ho cercato per tre anni, ho esplorato domande e sopportato solitudini, per scardinare automatismi che mi ero costruita con estrema dedizione. Nulla può accadere se il tempo non è maturo.
Il “tutto e subito” era un mantra per me, il tempo dell’attesa era un tempo sprecato, inutile, da ridurre al minimo indispensabile. Difficile sciogliere queste certezze e provare modi e sentieri altri.
Ora ho bisogno di sentire il mio tempo, di accarezzarlo fisicamente. Lo richiamo quando si allontana, o forse sono io che mi allontano da lui.
L’ho ignorato per così tanto, l’ho combattuto e sfidato per anni finché non ci siamo incontrati. In questa scuola. Dentro parole nuove, dentro sguardi di attesa, dentro lo spazio per l’incontro con l’altro. Dare tempo al tempo.
Più che usare bene il tempo, sto lasciando che il tempo mi insegni.
Sto imparando a lasciar fare a lui, a permettergli di essere e di agire.
Il suo scorrere apparentemente innocuo, non produttivo  è ora per me fonte continua di ispirazione e cambiamento. Il tempo cambia e ci cambia.

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