Skip to main content

Articolo

La malattia e le sue parole eco-biografiche
Cecilia Pasetto

Parole “ciotola” per poter fiorire. Nonostante.

La Vita, nella sua infinita pazienza e lungimiranza, ci offre diverse possibilità di forgiare nuovi chiavi di lettura degli avvenimenti, o quantomeno innesta in noi il desiderio di trovarle. Così, quando il nostro corpo si fa sentire, fermandoci anche solo temporaneamente, possiamo scegliere, o meno, di sintonizzarci sulle frequenze di quanto accade. E potremmo ritrovarci ancora piantati su un terreno sdrucciolevole, laddove pensavamo di avere basi solide.
Ci sono parole che ci accompagnano nell’esperienza della malattia e che possono aiutarci a collegare i nostri vissuti particolari ad una visione più ampia, eco-biografica. .

Dolore e cura
Il “dolore fisico” ha bisogno di veder riconosciuta la sua dignità, nell’unica parola che non ampia la ferita: il silenzio della presenza e del  rispetto per ciò che non si conosce;  uno spazio vuoto quindi, tenuto pulito con il coraggio di chi sa di non poter dare risposte. Le parole di consolazione infatti, spesso scavano solo una distanza tra chi le pronuncia e chi sta soffrendo, alimentando senso di solitudine ed incomprensione.
“Cura” è una parola meravigliosa, la cui dimensione cambia radicalmente con l’esperienza di malattia vissuta in prima persona. Umanamente, al di là della diagnosi medica, si riscopre il valore del “poco”: un tocco, una carezza che dice “ci sono”, quello stare accanto senza poter far niente, tanto inutile quanto fondamentale. Quindi, in realtà, un “poco” che evapora per fondersi col “tutto”, tutto quello di cui abbiamo bisogno. Solo in un luogo così, forse, ci si può elevare oltre il dolore. Che non significa sublimizzarlo! Significa piuttosto cercare di rimanere umani dentro, nonostante il dolore, riuscire a non identificarsi con esso, nonostante la sua permanenza.
La malattia, per chi la vive e per chi vi partecipa, può così offrire uno sguardo più aperto,  delicato, connesso con il mistero profondo del dolore ma anche della vera com-passione, dell’amore.
Stare su questa soglia è sapere che la cura a volte si declina in una semplicità rivoluzionaria, in delicatezza, in solo apparente impotenza…
Saper stare in un luogo così, è saper stare nel processo della vita.

Terapia e corpo
Quando si sta male si ha bisogno di terapie: fisiche e farmacologiche; psicologiche e spirituali. Relazionali. Amicali. … Per quanto riguarda il fisico, spesso ci è richiesto di collaborare… ascoltandoci, con molta attenzione.
Ascoltando il nostro corpo.
Sembra facile, ma non lo è. Non siamo abituati ad ascoltare il corpo, a prestare attenzione ai suoi segnali, a metterlo al centro del nostro tempo.
Corpo. Parola e dimensione frequentemente ignorata. Anzi, bistrattata. Noi, spesso artefici e vittime di questa mancanza di cura. Solo noi. Inutile cercare altri colpevoli. Noi, unici responsabili di questo eludere, posticipare, ignorare.
Con la malattia potrebbe iniziare un tempo di restituzione, di ascolto non solo dei suoi bisogni ma anche dei suoi tempi. Potrebbe crearsi l’occasione per iniziare ad orientarsi ascoltando il corpo, e rispondendogli. Giustificando anche le sue parole e le sue grida in base a quello che gli richiediamo. Parla in continuazione, il corpo, e il più delle volte non ci piace quello che racconta ma possiamo tentare una risposta adeguata. O quantomeno un silenzio rispettoso. Curandolo laddove duole.
Quando l’emergenza passa, è sicuramente difficile rimanere fedeli a queste conquiste ma, forse, la nostalgia di un dialogo ci potrà servire come richiamo.
Il corpo ciotola, direbbe Ivo Lizzola, portatore di parole sacre. Un corpo biografico che tenta di adattarsi alle nostre mancanze.  
Fino al punto di rottura. Fino a quando, ci ferma e ci obbliga all’ascolto.

Parte e intero
Quanto male ci fa essere visti solo come quella parte del corpo, quell’organo, che ha problemi? Essere identificati con essa? Quanto ci fa sentire frammentati?
Quanto invece abbiamo bisogno di uno sguardo che ci veda interi e che nel nostro intero sappia leggere i segnali particolari che ci dà il corpo? E quanto questi segnali sono in realtà assolutamente collegati a tutto ciò che siamo, non solo al corpo intero ma anche alla nostra storia e all’ambiente in cui viviamo?
Domande…

Dipendenza e affidamento
La malattia a volte costringe a fare i conti con la nostra perdita di controllo su fatti, cose, persone… Come sopravvivere dipendendo dagli altri per moltissime cose?
Come rischiare l’affidamento ad un medico, ad una diagnosi, ad una indicazione terapeutica?
Affidarsi. Rischiare di affidarsi. Scegliere la resa (nonostante possa sembrare di non aver scelta).  È una rivoluzione assoluta.
Affidarsi, per me, è parola di respiro, di battito, di trasformazione. È scelta grande. È spalancare i polmoni per permettere un passaggio diverso, più lungo, più profondo, di quelli che arrivano a smuovere tutto e che ci ricorda quanto è ampio il mondo.
È permettere al cuore di calmarsi, di rallentare il battito perché non deve far fronte a tutto da solo, c’è la possibilità di una cordata, umana e non solo, che consente di farcela ma anche di lasciar andare qualcosa.
 “Affidarsi” e “scegliere la resa” non sono sinonimi di passività ma sono scelte concrete, di azione; è un movimento, da dentro a fuori, sostenuto dalla riscoperta della dimensione della tenerezza, quella che possiamo ricevere dagli altri ma anche quella che possiamo donare a noi stessi.

Lentezza ed ecologia
Tempi lunghi. Lunghissimi. Per guarire o comunque per migliorare.
Magari impossibilità di muoversi, di fare velocemente.
Lentezza. Altra parola difficilmente integrata nelle nostre esperienze quotidiane, difficilmente incontrata davvero. A volte anche parola rifiutata, evitata, negata.
Lentezza. Che avvolge tutto. Anche il futuro, annebbiandolo, se non la riscattiamo nell’ottica dell’affidamento.  Se non ci lasciamo raggiungere dall’onda ecologica che questa parola porta con sé. Quell’onda che arriva sulla spiaggia e poi si ritrae, lasciandoci il sapore in bocca della nostalgia, per quel tempo che sta in mezzo tra il suo ritiro e il suo ritorno. Il tempo opportuno, che ancora però non riconosciamo.
Ecologia, parola ritrovata in Arkè. Ecologia del tempo, delle relazioni, dell’ascolto e della parola. E proprio la lentezza restituisce questa parola alla sua essenza. È riconoscere il valore di ogni frammento, di ogni piccola parte.
Custodirla.
L’ecologia della lentezza, quando diventa familiare, quando si incarna nel nostro nome, ci permette di uscire da noi e di vedere il malessere dell’altro, quello celato sotto la fretta, la velocità del fare, del camminare, del respirare, del mangiare, dell’usare. O meglio, del consumare.
Nell’altro, che non si concede tregua, vediamo la nostra immagine di prima.
Sì, di prima, perché con certe ferite o malattie, c’è un prima e un dopo. C’è un tempo che spesso non ci appartiene e non riconosciamo come ritmi ma che possiamo comunque trasformare in tempo opportuno. Nonostante tutto.

© Riproduzione riservata