Skip to main content

Articolo

Il professionista scelga di "incontrare"
Cecilia Pasetto

Farsi compagni di viaggio

La consapevolezza quando ti entra dentro, ti sconquassa. Ti vien da chiederti se è davvero positiva come dicono tutti.

La consapevolezza ti rivolta, non ti lascia in pace almeno finché non la integri nel tuo sistema di vita.

Quando cominci a vedere le cose, o meglio quando cominci a posare lo sguardo oltre le cose, non puoi più tornare indietro. E all’inizio non c’è niente di idilliaco, almeno non c’è stato per me. Ti sembra di capire le cose per la prima volta e ti chiedi cos’hai fatto nella vita fino a quel momento.

Mi viene in mente quando, dopo anni di visite oculistiche, finalmente una dottoressa prescrisse gli occhiali a Sofia, mia figlia: eravamo preoccupati che li rifiutasse. Invece, appena entrata in casa, passò stanza per stanza a guardare tutto, in basso, ai lati,  in alto, con lo stupore stampato sul viso, come vedesse ogni cosa per la prima volta! E così era in effetti!

Ecco, la consapevolezza è una cosa così.

E all’inizio è faticosa perché hai un sacco di cose da guardare, in basso, ai lati, in alto…

Poi ci prendi gusto e riesci a vedere oltre i muri, quelli della vita.

È un cammino, lento ma inarrestabile. Che viene nutrito in mille modi, se glielo permetti: un incontro, un libro, un film, un’esperienza… anche solo un paesaggio, un profumo, un colore, uno sguardo. Si smuove qualcosa. E non è solo un movimento fisico, è un movimento che parte da dentro, che sposta, che cambia.

Piccole, importanti trasformazioni che ti fanno percepire che stai consentendo al tuo processo di realizzarsi perché c’è un moto d’insieme dentro il quale anche tu senti che ti puoi muovere, finalmente.
Voglio dire, non servono cose eclatanti… Basta aprire gli occhi. E fermarsi il tempo necessario ad interiorizzare quanto accade. Ma è la cosa meno scontata di questo mondo.
È un processo. E spesso parte grazie a donne e uomini che accettano di camminarti accanto, perché non sempre la scalata si può fare da soli: “Certamente quando la frattura attraversa improvvisamente la vita, si può ben pensare di non riuscire a ricostruire, di restare nelle macerie. Occorre essere resi capaci, o essere sostenuti per non temere il disordine, per riuscire a reggere la desolazione. Dare un significato alla sofferenza in un primo momento può non essere importante quanto l’esplorare i propri limiti e accettare di essere deboli” (Ivo Lizzola).  Ci sono donne e uomini che vedono già tante cose di te che tu neanche immagini, concentrata come sei sui tuoi limiti; sono persone che sanno attendere, sanno sostenere anche stando ferme, in quel luogo miracoloso che è l’accanto, perché solo tu sai qual è il tuo momento.
Io ne ho incontrate davvero tante.
In particolare un medico responsabile del piano terapeutico di Sofia da quando aveva due anni. E che ha “preso in carico” anche me, convinto che Sofia in qualche modo avesse già i suoi strumenti, mentre io dovevo ancora cercarli, costruirmeli. Se me l’avesse detto all’inizio, avrei cambiato subito, me ne sarei andata assecondando il mio bisogno di fare, di intervenire. Per mia fortuna, invece, tenne per sé questa cosa, non era ancora pronta, lui aveva intuito e mi aspettò. Solo molto più tardi compresi il senso del suo accompagnarmi…
Semplicemente e con infinita pazienza, ha fatto in modo che io potessi fare il mio percorso, ha creato le condizioni favorevoli.
Mi ha visto molte volte confusa e mi ha dato tempo.
Mi ha visto “lottare” e mi ha assecondato.
Mi ha visto rabbiosa e mi ha aspettato.
Mi ha vista angosciata e mi ha ascoltato.
Mi ha vista persa e ha fatto luce davanti a me.
Tantissime volte, nel mio percorso di formazione come Counselor Biografico, ho ritrovato le sue modalità “di cura” in quello che stavo studiando e vivendo…
Non mi ha mai dato consigli o soluzioni facili ma ha sempre trovato il modo di illuminare la mia stanza buia, affinché io potessi trovare la mia lanterna e andare avanti.
Ci sono professioniste e professionisti che hanno il coraggio di scendere dal piedistallo e di farsi compagni di viaggio.
Quando incontri persone così, si va oltre il ruolo, che non perde minimamente la sua importanza nel rapporto di cura: si va oltre nel senso che diventa un dialogo e il livello dell’incontro non ha bisogno del consiglio, non conosce il giudizio, non si basa sui protocolli.
Esiste la persona che si sente riconosciuta nella sua interezza, indipendentemente dal problema, dalla patologia o dalla difficoltà che l’ha portata lì.  Perché il problema, la malattia, la difficoltà non ha vita propria, non è una realtà a sé stante, ma è radicata nella persona che la porta, è integrata nel suo sistema di vita che a sua volta è inserito in un preciso contesto sociale e familiare: e questo ne fa un caso assolutamente unico, che va incontrato in modo unico.
L’incontro, prima ancora della terapia, diventa cura.
L’incontro vero ti restituisce il potere della tua autodeterminazione, nella malattia, nella sofferenza, nella crisi.
È il rischio che un professionista dovrebbe saper correre, “È un gioco di deposizione. Si depone il potere non solo nel senso che lo si lascia ma che lo si lascia essere, non lo si abbandona e non si rinuncia al potere: si entra in una dimensione del potere che ha più il segno della possibilità generativa piuttosto che quello del controllo” (Ivo Lizzola).
Prendersi cura è esserci, incontrare, con-dividere. È diventare ponte che possa permettere all’altro di attraversare i momenti difficili della vita.
Di riprendersi il potere di orientare la sua storia.

© Riproduzione riservata