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Ada Capone

Counselor biografica

Ha frequentato Arkè Formazione
Ha studiato Costumista presso Accademia Costume & Moda
Ha frequentato Istituto D'Arte Manuppella-Fascitelli
Vive a Merano
Di Isernia

Articolo

... e ancora vita
Ada Capone

Una malattia “impossibile”: la corea di Huntington…

Mi chiamo Ada Capone, sono moglie di Georg, malato di corea e madre di due figlie a rischio.
Sappiamo tutti cos’è la malattia di Huntington, qualcuno la chiama Bestia, io la chiamo Signora Corea, nel pieno rispetto e solidarietà delle persone che, come me e la mia famiglia, l’hanno presa in consegna. Le dò un nome accettabile per cambiare lo sguardo, per riscattare anni di pregiudizi sulle malattie neurodegenerative, per sostenere lo spazio tra l’immaginario e l’immagine. L’immaginario che hai di te, l’immagine che rifletti all’esterno, discrepante da quell’immagine della società, quella del perfetto, dell’efficienza, dell’infrangibile resistenza.

Cambio di sguardo ed accettazione incondizionata e non giudicante della fragilità umana.

Il rischio, l’incerto, l’ignoto. Sapere che per metà puoi essere malato, ti sbatte in faccia una certezza, quello che potrai divenire, come potrai non essere più ciò che, fino ad ora, hai costruito di te, il tuo essere nel mondo così come vuoi esserci nel mondo.

Ciò che il rischio ti fa presagire, quel che potrai divenire, te lo testimonia ogni giorno la persona che ti ha creato, la persona che ti ha accompagnato alla vita e sulla quale credevi di poter contare, un genitore che già ospita, nel proprio corpo, la Signora Corea.

Non parlo di accettazione della morte, ma della difficile accettazione di un probabile cambiamento di forma ed essenza.

Essere positivi al test è avere la certezza del sopravvento dell’ indesiderata ospite che fino ad allora attendeva sulla soglia: non resta che attendere.

Malattia complicata e di difficile gestione. Fare o non fare il test è scelta ardua, la probabilità della perdita del proprio sè ti ribalta e decostruisce.

La mia esperienza nella malattia è certamente molto simile a quella di tanti di voi. L’oscurità, percepita fin nelle ossa, dal momento della scoperta del gene malato, il terrore che ti accompagna ogni istante della giornata, una relazione indesiderata e non scelta con la malattia che ti fa invidiare il resto del mondo. Anche i malati terminali di cancro.

Il nulla totale e assordante, che ti paralizza e ti fa stagnare.

La malattia sopravviene spesso a metà della propria vita, quando credi di avere costruito l’idea del tuo futuro, e quando avviene la catastrofe, non sei pronto, ti ritrovi ribaltato in un mondo nuovo e terribile.

Il percorso per l’accettazione è lungo e molto difficile, ha necessità di una relazione altra, di uno specchio che ti aiuti a comprendere cosa davvero senti dentro di te.

Da soli non si può. Di questo ne sono certa. Da soli si diventa preda di emozioni primordiali, si va in cerca del “colpevole” per dare un senso al vuoto di senso.

Perché mia suocera non l’ha detto? Quante volte mi sono fatta questa domanda. Quanto l’ho odiata quella donna.

Ora comprendo il suo silenzio, che avevo confuso con un gesto di potere assoluto nei nostri confronti, non lasciandoci la libertà e quindi la responsabilità del procreare. Ora capisco, dopo anni di percorso psicoterapeutico, la sua fragilità e la sua solitudine, il suo giocare sulla probabilità ed il suo desiderio: la certezza che qualcuno dopo di lei potesse occuparsi di suo figlio.

Comprendere questa cosa mi ha dato la possibilità di creare spazio per ricostruire quello che si era rotto, di comprendere profondamente anche i miei sentimenti.

Per tanto tempo mi sono nascosta nel silenzio.

Non l’ho mai nominata la malattia, senza però fare i conti con il suo esordio, con le sue forme che prendevano vita nel corpo del mio amato marito. C’erano parole inespresse, erano dentro ma non trovavano spazio per essere contenute al di fuori di me e accolte da altri, nemmeno e soprattutto dalle mie figlie.

Delirio di onnipotenza pensare che, da soli, si possa contenere un dolore così grande!

È stata la mia figlia maggiore a costringermi a parlare. Ovviamente lei aveva capito che qualcosa stava cambiando ed allora sono stata costretta a svuotare il sacco.

La sua reazione è stata un abbraccio, non me lo aspettavo.

Mi ha detto: mamma, ora pensiamo a papà, per noi due non preoccuparti ora.

Pre-occuparsi, occuparsi prima.

Le parole giuste aiutano a guarire l’anima. Quella parola, regalata da mia figlia, mi dava finalmente la possibilità di occuparmi della malattia di mio marito, qui ed ora e di non rifuggirla.

Questo è il compito di noi famiglie: osservare la vita che si riveli, anche se in forme distorte, in smorfie inconsuete, osservare con uno sguardo sempre nuovo, a volte ritirarlo per dare spazio all’altro, come in una danza. E lasciare che questa danza venga guidata dalla persona malata, per permettere alla vita di continuare ad esistere. Dare senso al tempo della malattia, non rifuggirlo o combatterlo. Sarebbe uno spreco di inutili energie. Dare valore alla vita anche se malata e viverla nella pienezza più completa, anche come gesto di speranza, di futuro, di possibile desiderio per chi è a rischio.

Desiderio e speranza.

Speranza nella ricerca, con fiducia nelle persone che lavorano per trovare una cura, ma con una consapevolezza: noi e solo noi che viviamo ogni giorno i cambiamenti del malato vivendoli sulla nostra pelle, possiamo aiutare ricercatori ed i medici a trovare il loro centro, per potenziare le loro forze. Siamo esseri umani, la comunicazione tra di noi è alla base del buon risultato.

Sono stata chiamata a testimoniare la mia esperienza, il mio percorso nella malattia di Huntington, e volentieri ho accettato questo invito anche, e direi soprattutto, per poter conoscere altre famiglie che si trovano nella mia stessa condizione.

Il mio desiderio è quello di creare una rete, per poterci raccontare e poter dare un nome alle emozioni che ci pervadono, dare volto alla malattia per poterla vivere in un modo umano.

Vorrei regalarvi una frase che mi ripeto spesso, tratta dal diario di Etty Hillesum, scrittrice olandese uccisa ad Auschwitz: “ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda il dominio della morte, si, ma vedo anche uno spicchio di cielo, ce l’ho nel cuore, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza”

Grazie.