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Articolo

Per abitare di nuovo il proprio nome
Ivo Lizzola

Sono le esperienze reali, gli incontri faccia a faccia che aiutano a sortire dall'anestesia etica e dalla disaffezione verso legami, cittadinanza e sogno futuro.

Sono le esperienze reali, gli incontri faccia a faccia che aiutano a sortire dall’anestesia etica e dalla disaffezione verso legami, cittadinanza e sogno di futuro. Che aiutano a cogliere che ‘si è di qualcuno’: e non solo perché c’è chi ci ama, ci conosce e ci chiama, ma anche perché c’è chi ha bisogno d’esser da noi riconosciuto, della nostra cura. Siamo per qualcuno che abita qui, oppure lontano, di cui sentiamo attesa e domanda: che ci chiama per nome, ci rende non sostituibili. Certamente nel nostro limite ma anche nella particolare possibilità dei nostri saperi, delle capacità e degli spazi affettivi nostri.

Questi sono patrimoni aperti, disponibili e più ampiamente e profondamente abitati da ospiti diversi.Grazie a queste ‘pratiche di nominazione’ si matura e si accetta che, sì, ‘io morirò, me lo dice il mio corpo’, proprio mentre pare non riuscire a contenere il fremito e il desiderio, ma vivrò io, con il mio nome: riprendendo e così serbando l’essere ‘di qualcuno’. Non si avrà timore di individuarsi, di trovare un nome, di confrontarsi con la differenza.

Il senso dell’unicità irripetibile della propria identità, della propria biografia viene raggiunto pagando il prezzo dell’evidenza del proprio finire. D’altra parte tale consapevolezza viene a un tempo sottolineata e consolata dall’intensità delle vicinanze e degli incontri, dalle prove di responsabilità, dalla forza degli affetti, dalle condizioni di sogni e progetti, da tutto quanto dà spessore alla biografia personale e all’intreccio di legami che la tesse. ‘Cerco d’esser giusto, soffro con voi, spero di non farvi male’: è ‘tutto qui’, io ci sono con il mio nome.

Quando le ragazze e i ragazzi si sentono chiamati per nome, si sentono nella pienezza del momento. Intravedono una storia da raccontare nei giorni del mio corpo vibrante e sofferente di giovane uomo, di giovane donna. Una storia si dipana anche in relazione ad una prefigurazione di futuro, e prima ancora a partire da un modo di sentire dentro di sé il futuro. Colti in una ‘nudità’ di cui riescono a non vergognarsi troppo. Possono fare magari poco, ma apprezzati e accolti. E rendendosi conto di ciò che altri vivono. Altri sono tra noi, già in noi. ‘Siamo tra noi’ e ‘altri è tra noi’. Siamo tra noi: consistiamo, ci individuiamo nell’elezione alla responsabilità cui l’altro ci chiama. Vigiliamo sulla sua fragilità, ci riguarda, non siamo sostituibili. Altri è tra noi: si impara la socialità della molteplicità, della politica, della giustizia. L’amore precede la giustizia, ma non la sostituisce, né la evita o la relativizza.

È l’esperienza dell’alterità, che mi porta a cogliere; nell’abnegazione dell’essere-per-l’altro, io sono, eccomi!. Ed è significazione delle istituzioni, del diritto, del codice come forme necessarie della cura responsabile dell’‘altro tra noi’ (del ‘terzo’ come dice Lévinas): una è condizione dell’altra. Occorre costruire l’ordine della giustizia, la società politica, il sapere.

A salvaguardia e a riconoscimento dell’altro che è tra noi. Occorre confrontare, giudicare, essere equi; anche indignarsi, denunciare e condannare. «La giustizia rimane giustizia solo in una società in cui non c’è distinzione tra vicini e lontani, ma in cui rimane anche l’impossibilità di passare a fianco del più vicino; dove l’uguaglianza di tutti è portata dalla mia disuguaglianza, dal surplus dei miei doveri sui miei diritti».

Educando le vite giovani perché questo sia l’atteggiamento diffuso nell’ethos civile, in esperienze in cui si sia condotti al «ritorno all’interiorità della coscienza non-intenzionale (…) alle sue possibilità di temere l’ingiustizia più della morte, di preferire l’ingiustizia subita all’ingiustizia commessa, e ciò che giustifica l’essere a ciò che lo rassicura».

È una sfida educativa di non poco conto quella che è di fronte a noi visto il legame tra la ricerca di autonomia e la tensione all’autofondazione e all’autodeterminazione individuale che si viene a stabilire nei percorsi di crescita dei minori. Si tratta di combattere l’entropia dell’io ‘minimo’ che vuol bastare a se stesso e si difende nell’impotenza e nell’irresponsabilità. E di combatterla coltivando l’aspirazione allo scambio di una cura liberamente offerta e condivisa. Linea di resistenza alla deriva verso ‘flessibili provvisorie identificazioni’ che riducono la libertà a una estenuazione dei vincoli e che riconoscono una uguaglianza negli interessi e nelle condizioni simili.

Con le istituzioni (e le relazioni sociali, la formazione, la cultura, la famiglia stessa) ridotte a puri mezzi per l’autorealizzazione dell’individuo. Questa sfida educativa chiede, né più né meno, di riaprire il respiro della relazione educativa tra le persone e le generazioni.

 

scritto da Ivo Lizzola, tratto da "Le vite giovani e la periferia del tempo", pubblicato in Il seme e l'albero n.1 del 2015