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Articolo

Partecipare la vita comune
Ivo Lizzola

Percorsi di ricerca esistenziale, di elaborazione culturale, di immaginazione della convivenza per generare democrazia e vita comune
Donne e uomini vulnerabili

È stato recentemente ripubblicato uno scritto del 1945 di una lucida María Zambrano dal titolo L’agonia dell’Europa. “Ogni disastro – scrive - consente alla gente di manifestarsi nella sua cruda realtà: è lo strumento di rivelazione più esatto di tutti quelli che si conoscono. Specialmente per i “bassifondi” della convivenza, che in circostanze normali vivono nascosti. Così, il risentimento”.

Quando crolla ciò che s’era mantenuto saldo per molto tempo, con i suoi vincoli morali e le forme istituite di convivenza, “il rancore accumulato si scatena, viene alla luce senza maschera. È la sua ora. È l’ora della soddisfazione di tutte le impotenze. È anche l’ora degli ultimi arrivati, di quelli che adorano il successo come unico arbitro delle cose divine e umane”. (M. Zambrano, 2009, p. 11)

Sembra parli di noi, della nostra stagione nella quale assistiamo alla distruzione del vincolo della vita comune, della coscienza morale, oltre che dell’ethos civile, dei radicamenti e delle speranze.

Tempo di durezza e di rancore, il nostro, preso dai vortici e dai risucchi in paure e sentimenti  negativi. Le cui ragnatele prendono dentro interiorità di donne e uomini, comunicazioni tra le generazioni, comportamenti sociali. Il rancore è reso terribile per “la sua essenziale apostasia: il fatto che si ritorca sempre, cieco, contro ciò che potrebbe salvarlo”.  Distrugge principi e valori, pure quelli che l’avevano innescato. E con questo ogni forma di lealtà, di fermezza, di onestà.
Tanti paiono consegnati alla spinta dai fatti e sprofondati nella passività: manca “la solitudine, di uno spazio libero, puro e vuoto all’interno della coscienza”, e “della fede nella ragione, dell’ardore per l’esercizio del pensiero” (p. 14) rimane solo un vischioso scetticismo. Ed emerge anche oggi “l’adoratore del successo” di cui parla Zambrano nel testo sull’agonia dell’Europa. Adoratore che si muove senza integrità e senza verità.
Ora, come allora, è il tempo della veglia, di una appassionata e dolorosa lucidità per vedere, curare, servire ciò che nasce, mentre una stagione finisce e muore. E, mentre muore, porta chi vi ha speso qualcosa del meglio di sé, e una buona speranza di giustizia e bellezza, a “una specie di confessione, e persino al pianto” (che hanno “un che di cuore che scoppia”, mentre pare scoppiare il cuore del mondo, quello abitabile, quello della speranza).
La confessione e il pianto sono come un sigillo: sono la ricerca d’una consegna buona di ciò che è stato serbato come promessa in ciò che muore, e per ciò che viene. Consegna per un nuovo inizio, senza particolare preoccupazione di un suo “successo”, di una “affermazione”, di un compimento che ci veda partecipi. Consegna d’una promessa dentro pratiche di vita nuova, presente e “inattuale” insieme.
Ancora, nel cuore dell’Europa che scoppia, appare la traccia profonda della violenza, del disprezzo per la debolezza e il limite, la fragilità e la caduta. E anche per quanti vi si chinano presso in sollecitudine. Ma l’uomo è una creatura a cui non basta nascere una sola volta: gli è possibile ed “ha bisogno di venire riconcepito” (reengendrado). La speranza “è il fondo ultimo della vita umana”, quello che esige la nuova nascita. Oltre la violenza l’uomo e la donna europei hanno la consapevolezza di questa speranza, serbano il bisogno di una nuova nascita. Non abitano solo il tempo presente e il già dato. Anche contro i dati di fatto sono tesi a curare l’inguaribile, a dare la vita per la giustizia, a stare presso ad afflitti e vittime, a perdonare (e a confessare la colpa).
Sono insieme uomo vecchio e uomo nuovo: cammino dentro di sé e conflitto. Scrive Zambrano: l’uomo europeo “porta un altro dentro di sé. Colui dal quale fuggiamo (…) del quale ci vergogniamo (…) e l’altro dei nostri sogni, con il quale arriviamo a confonderci nei momenti fortunati, in quei rari momenti in cui ci sembra che viviamo e siamo davvero” (p. 65). Un conflitto, un dare la vita per vivere, una nuova nascita. La possibilità di riacquistare la propria interiorità, che trascende tutto, che è inabbracciabile.
Oggi non siamo di fronte solo ad una “questione sociale”. Quando parliamo delle nuove forme di diseguaglianza, della profonda crisi del legame sociale, dei diversificati percorsi di vulnerabilità, dei fenomeni di marginalizzazione, dell’incertezza, della povertà, segniamo storie e situazioni nelle quali è rimessa in gioco la stessa condizione umana investita da difficoltà e fatiche,  piegata in spazi soffocanti. Sono in gioco l’idea e le forme dell’umano, il senso, la coscienza morale.
Le diverse forme della flessibilità, l’ansia di variabilità, l’esposizione al rischio, alla discontinuità del lavoro, lo stress da competizione individualista, permanente e senza legami “si rivelano invasive e critiche per la vita delle persone” e premono con forza sulla condizione delle famiglie. (E. Zucchetti, 2009, pp 22-23). Sia il benessere che la sofferenza sono sempre più privatizzati e non solo nelle nostre città.  Un benessere difeso dagli altri e che non deve rispondere a nessuno: motivo d’ostentazione più che di dedizione e “obbligazione”. Una sofferenza reclusa in spazi  privati e familiari, motivo di ripiegamento, quando non di vergogna. (S. Tomelleri, 2009)
Molti elementi di vulnerabilità, di sofferenza sociale e di emarginazione, hanno natura sociale ed economica; ma molti hanno natura esistenziale, sono legati a dimensioni personali, psicologiche, relazionali, di senso. Pensiamo a tante storie di depressione e di abulia, di disorientamento profondo. Pensiamo a quelle situazioni che vengono diagnosticate nelle categorie-contenitore dei “disturbi di personalità”: lì dentro raccogliamo “i buchi neri” legati a senso di insicurezza e di vuoto, a incapacità di relazionarsi.
Una delle forme di diseguaglianza più insidiosa oggi riguarda proprio la distribuzione delle relazioni sociali. Una delle più preziose forme di intervento per rendere sostenibili le condizioni di vulnerabilità sociale e di disagio esistenziale è costruire progetti che tessano e infittiscano legami e prossimità, conoscenza e relazioni. L’alleggerimento dei compiti di cura e di accompagnamento alla crescita chiede una trama di socialità, di prossimità e di creativi legami nelle comunità. In attesa di una maggiore “amichevolezza degli orari e dell’organizzazione del lavoro nei confronti di chi ha responsabilità familiari”.  È possibile assumere la vita quotidiana come contesto, problematico ma anche ricco di risorse, e la vita di relazione come luogo nel quale conciliare ruoli, impegni, esperienze multiple, solo aprendone le condizioni di possibilità gli uni grazie agli altri. Considerando decisivo il  “fattore tempo, poiché quest’ultimo si rivela ormai come tessuto connettivo della qualità della vita (…) particolarmente per le donne” (E. Zucchetti, p. 43)
Ritrovarsi come donne e uomini nella pienezza delle proprie dimensioni e possibilità, capaci di resistere alla profonda lacerazione sociale, al nichilismo, alla durezza, e costruire legami, orizzonti di senso, risorse sociali, convivenza  segnata  da responsabilità e cura, da riconoscimento, sono elementi dello stesso movimento, della stessa ricerca.
Si tratta di recuperare la possibilità di esistenza come persone libere e creatrici, contro la spersonalizzazione cui ci espongono la vita lavorativa, economica, sociale, le pratiche di consumo, lo svuotamento delle relazioni, la comunicazione funzionale.
Un bisogno di comunità? Certo non intendendola come insieme omogeneo, come ritorno ad una origine mitica, come risposta immediata a bisogni di identità.
Una prospettiva che non inclini, come certo comunitarismo nordamericano, al conservatorismo, al localismo, al tradizionalismo. E con la consapevolezza che anche oggi, spesso  “si abusa della mistica del prossimo, come della mistica del piccolo” (E. Mounier, 2004, p. 43)
Nel tempo del pluralismo culturale e morale, degli incontri, delle differenze, delle distanze, occorre “ripensare forme di convivenza fra persone embricate in mondi differenti, caratterizzate – nella loro identità – da appartenenze multiple e talvolta disomogenee”.. (M. Magatti, 2000)

nella crisi del tempo presente
Quando le relazioni e i progetti, le politiche e le iniziative restano senza radicamento nell’immaginazione e senza alimentazione nella disposizione aperta delle persone la convivenza si riduce a un circo di consumi e a vuote offerte d’emozioni e di evasioni per chi può permettersele. Per gli altri resta una stratificazione di solitudini, di consolazioni, di sofferenze, di inaridimenti, di stordimenti.
Ogni sforzo di generare incontro e relazione deve sapere anche ridare respiro alla sensibilità simbolica, aiutare lo strutturarsi di una coscienza morale: deve toccare ed evocare orizzonti ultimi di senso. Se non c’è fame di altro, interiorità, senso dell’essere trascendenti, in vista d’altro si resta rinchiusi in una affaccendatissima apatia quotidiana. Scollegati dalla stessa propria sofferenza.
Nella società del merito e della prestazione, la società dei giusti, verso i deboli e i sommersi non si prova pietà, tanto meno senso di debito o senso di colpa.
È anche un problema di rappresentazione. Si continua a rappresentare la nostra convivenza – e le relazioni tra individui e soggetti sociali – in termini di successo, di sicurezza, di iniziativa e merito, di efficacia-efficienza, di innovazione, di prestazione, di sviluppo ed investimento, di accesso alle opportunità, alle occasioni.  Come se questo fosse al cuore della vita , della costruzione dell’identità e dei legami vitali tra persone, generazioni, famiglie e comunità. Come se questi elementi, soli, garantissero  solidità e futuro della convivenza.
In verità al cuore della nostra convivenza, e delle relazioni tra donne e uomini c’è, piuttosto, una nuova evidenza della condizione di fragilità dell’umano, e della esposizione reciproca alle presenze e alle iniziative degli altri. Ciò che si avverte con più forza è, per i più, la propria vulnerabilità. Questa la si può temere, e si può anche essere sopraffatti da un’ansia che si trasforma a volte in angoscia. Oppure si può anche reagire alla sensazione d’essere esposti, di restare in balia di altri e degli avvenimenti irrigidendo ogni relazione costruendo cittadelle chiuse, aggredendo. Ma si può segnare anche una via diversa:  quando l’esperienza d’essere “consegnati in mani d’altri” fa incontrare affidabilità e presenze attente allora possono venire generati tessuti di relazione fraterna e responsabile, apertura al nuovo, mutualità, riconoscimento e reciproca assicurazione. (I. Lizzola, 2009a)
Certamente è decisiva la presenza di esperienze nei luoghi di vita: che leggono e incontrano passaggi di fragilità, segnali di sospensione o crisi, bisogni di riorientamento nelle scelte. Occorre indagare bene cosa avviene sulla soglia ove si toccano dinamiche generative (che trattengono o riportano all’interno di reti, di presenze e progetti di sostegno vitale) e dinamiche distruttive (che fanno scivolare nell’area della marginalità, dell’abbandono, dell’inorridimento e dell’impotenza). Indagare bene cosa fa piegare verso una direzione o verso l’altra.
Per una lunga stagione si è pensato – nel sindacato, nell’associazionismo, nei partiti “solidaristi” – secondo la logica dell’equità, della giusta redistribuzione delle risorse e delle opportunità. Si è lavorato per precisare i termini della giustizia sociale e i diritti da assicurare ai più fragili, e agli ‘oppressi’. C’era appunto, decisiva e centrale, una  “questione sociale”. Era un mondo nel quale ci si leggeva all’interno di appartenenze e identità sociali, culturali e nazionali definite. Oggi non solo lo scenario (sociale, economico, ma anche culturale e tecnologico) è profondamente cambiato, ma ciò che va colto con preoccupazione e, soprattutto, con attenzione è una “questione” che non è soltanto sociale quanto, come dicevamo, attinente alla stessa condizione umana, e alla natura, prima che alla forma, del legame tra le persone. La logica di equità è insufficiente, oltre che sotto l’attacco della cultura meritocratica e mercatista.
Uno spazio comune di convivenza, spazio di riconoscimento e di responsabile cura,  forse è possibile oggi solo a partire da una logica di sovrabbondanza. Equità e diritti trattengono, oggi, dentro il calcolo, la reciprocità, la misura e la distanza di sicurezza. Non hanno la forza di spingere verso l’”anticipo” di forme di socialità, di economia, di incontro, di servizio nelle quali l’esposizione e la fiducia avvicinino, generino spazi per le persone, anche quelle normalmente fragili e mediamente vulnerabili. A maggior ragione per chi scivola in situazioni complesse e pesanti.
Garantire equità per singoli individui può lasciare comunque soli e incapaci di iniziativa, nella tensione dell’incalzare delle prove, della competizione, dell’assicurare sé e i propri. Senza tempi di incontro, attesa, decantazione. Nella logica di sovrabbondanza, (che guarda il rischio negli occhi senza farne un gioco come si fa quando lo si vuol esorcizzare) il presente è riconquistato come tempo dell’inizio, della nascita di forme nuove di vita personale e sociale. (I. Lizzola, 2009b) Non come transito ma come storia comune, cammino condiviso. Nel transito, nel sostegno momentaneo si continua a credere che le occasioni possono “capitare”, e si perde il senso del possibile nel’illusione di esser colti prima o poi da molteplici opportunità, come nei giochi televisivi.
Tra 2008 e 2009 la rivista francese Esprit ha ospitato un denso dibattito tra alcuni dei più attenti pensatori e ricercatori sociali europei attorno al tema “Verso la fine del ciclo democratico?” In uno dei passaggi si evidenziava come nelle democrazie occidentali, con maggiore o minore intensità, la politica  insegua desideri e paure delle persone, ed entri nel gioco delle forze e degli interessi, non per riportarli nella prospettiva di un orizzonte comune, di un futuro impegnativo, tanto meno al riferimento a criteri di convivenza, entro i quali definire forme e vincoli dell’agire libertà responsabili. La politica, invece, in Europa per lo più insegue desideri e paure per costruire il suo consenso e definire il suo senso.
Si semplificano per questa via questioni complesse, e si apre un grande spazio per il populismo (che accarezza i desideri ed usa le paure). Si riflette poco, come poco si ascoltano le storie e le voci di chi è in difficoltà e fatica. Non c’è la pazienza dei confronti approfonditi e seri, della costruzione di progetti e di politiche partecipative di responsabilità condivise e creative..

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